lunedì 5 marzo 2018

NUOVE CATEGORIE "TRAIL" SECONDO ITRA






L’International Trail Running Association (ITRA), nata nel 2013 per dare una voce unitaria alle parti coinvolte nel trail running e per promuovere in generale il movimento e la disciplina in sé, ha fatto in questi anni alcune cose mirate che hanno determinato dei cambiamenti, anche importanti.

Come per esempio l'introduzione dei famosi "punti" di cui tutti parlano, molti si lamentano e che però hanno costituito una vera e propria rivoluzione e sono a tutt'oggi l'unico strumento obiettivo per misurare la performance degli atleti.
È di oggi la notizia pubblicata proprio da ITRA che, in base ai dati acquisiti dal 2014 ad oggi, con un data-base di circa un milione di atleti e più di diecimila corse, saranno ridefinite le categorie "Trail", che non permettevano una classificazione coerente alla disciplina.
Ecco di seguito quanto apprendiamo proprio dalla news ufficiale.
Oggi la classificazione è basata sulla distanza e non consente una classificazione corrispondente allo sforzo richiesto ai corridori nei diversi trail.
Ad esempio, due gare della stessa distanza possono richiedere uno sforzo estremamente diverso a seconda delle loro altitudinidisliveli e terreno e quindi potrebbero essere oggi nella stessa categoria mentre i tempi di gara potrebbero essere completamente diversi. 
Allo stesso modo, due gare con tempi di gara identici potrebbero essere classificate in due diverse categorie semplicemente perché si tratta di due diverse distanze.
Con il nuovo metodo di calcolo le gare saranno classificate utilizzando il metodo "km – sforzo”, ai km viene aggiunto il dislivello in metri diviso per cento. A titolo esemplificativo: una corsa di 40 km e 2500 m+ varrà 65 punti.
La nuova classificazione prevede 7 categorie di Trail (dalla XXS alla XXL) tutte associate a i nuovi punti ITRA come nella tabella seguente:

Tempo vincitore*
Categoria
Punti ITRA
Km - sforzo   nuovi limiti
Km - sforzo           limiti correnti
1h00'
XXS
0
0-24
0-24
1h30'-2h30'
XS
1
25-44
25-39
2h30'-5h00'
S
2
45-74
40-64
5h00'-8h00'
M
3
75-114
65-89
8h00'-12h00'
L
4
115-154
90-139
12h00'-17h00'
XL
5
155-209
140-189
>17h00'
XXL
6
>=210
>=190
* quando il vincitore è di livello internazionale (minimo 830 punti ITRA)

nuovi punti si applicheranno a tutte le corse dell’anno 2019
L’indice di performance calcolato con le nuove categorie sarà effettivo a partire dal mese di marzo 2018.

A dire il vero non ci pare tutto chiaro. Per esempio pensavamo che nel "vecchio" calcolo fosse comunque parametrato il dislivello e così parrebbe di capire anche dalla tabella pubblicata. Ma la comunicazione dice il contrario.
E allora aspettiamo i chiarimenti che ariveranno di sicuro, così come i commenti dal popolo del trail. Saranno benevoli almeno sta volta?

Al seguente link l'articolo-news pubblicato sul portale ITRA: http://www.i-tra.org/?id=193



Fonte: Spirito Trail




BROOKS CASCADIA 12 GTX



Dodicesima edizione per quello che è diventato un vero e proprio marchio di fabbrica di casa Brooks: Cascadia è da sempre sinonimo di grande comodità, ammortizzazione efficace e volumi generosi.

Tutte caratteristiche che hanno reso questo modello un vero e proprio riferimento, soprattutto per gli appassionati di lunghe distanze e i cosiddetti “mid packer”, quelli che stanno nella pancia del gruppo. Una vestibilità confortevole, dagli spazi abbondanti, con una grande attenzione ai materiali utilizzati per la tomaia e un focus sempre diretto sul comfort piuttosto che sulla prestazione, almeno fino a oggi. Con questa Cascadia 12 GTX, infatti, Brooks fa un passo nella direzione del runner veloce che cerca una scarpa in grado di comportarsi bene anche ritmi sostenuti, rinunciando a qualcosa in fatto di comodità pura.
In questo modello che abbiamo provato per voi sui sentieri innevati delle nostre Alpi, la membrana impermeabile Gore-Tex si è comportata in maniera irreprensibile, mantenendo i nostri piedi asciutti e caldi, soprattutto durante le uscite più lunghe.
La suola è molto versatile, i tasselli sono distribuiti in modo efficace e la mescola della suola si è dimostrata all’altezza in ogni occasione, brillando in particolare sul fondo boscoso uniforme e sulla neve compatta. Qualche punto in meno sul fango pesante e sulla roccia bagnata.
Il rockplate, ben visibile attraverso gli intagli nella suola, svolge egregiamente il suo compito, proteggendo il piede in modo efficace dalle asperità del terreno.
Molto interessante l’adattabilità dell’intersuola, realizzata con il materiale BioMoGo DNA: progettato espressamente per adattarsi alla forma e alle caratteristiche di appoggio del runner che le utilizza, durante le prime uscite si modella letteralmente intorno allo stile di corsa di chi le indossa.



  
Ups
La Cascadia 12 GTX in parte si discosta dalla tradizione di questo modello che, storicamente, è sempre stato sinonimo di comodità “in stile pantofola”. In questa dodicesima versione, Brooks ha dato un’impostazione decisamente più orientata alla reattività e alla performance rispetto al passato, anche a livello di calzata, notevolmente più precisa, lasciandosi indietro qualcosa di quella morbidezza tanto cara agli appassionati di questo modello. Se questo si sente innanzitutto a livello di intersuola, la tomaia Gore-Tex conferisce quel qualcosa in più anche in termini di supporto e di struttura su tutta la calzata del piede. La protezione è sempre ottima, sia per quanto riguarda gli impatti accidentali con sassi e radici, sia dal punto di vista dell’impermeabilità. Ovviamente, come capita con ogni calzatura impermeabile, questa versione della Cascadia si comporta meglio al freddo che non al caldo, meglio dunque evitare di indossarla con temperature elevate.

Downs
Infine, un paio di appunti rispetto ai potenziali assi di miglioramento di questa scarpa. La linguetta ci è sembrata eccessivamente sottile, risultando fastidiosa dopo qualche ora di utilizzo e facendoci rimpiangere quella delle versioni precedenti, decisamente più confortevole. Anche l’allacciatura è risultata difficoltosa, in alcuni casi, a causa della lunghezza ridotta dei lacci. La calzata ci è sembrata essere diventata più stretta, rispetto alle versioni precedenti, ma abbiamo apprezzato il carattere duro e votato alla fatica di questa scarpa, che non teme davvero alcun tipo di percorso alpino e che, anzi, può essere tranquillamente impiegata anche per l’escursionismo veloce.

Info tecniche:
Appoggio: Neutro
Drop 10 mm
Peso 345 grammi
Prezzo: 150 €








RECENSIONE BROOKS PURE GRIT 6






Sebbene nata sull’onda del minimalismo che si era diffuso qualche anno fa, la Brooks Pure Grit, alla sua sesta edizione, è molto lontana dal potersi ancora considerare una scarpa minimalista, seppur dotata di un differenziale tacco-punta di soli 4mm. Un evoluzione fatta di piccoli step, che l’ha portata ad essere una scarpa comoda da indossare, strutturata e protettiva, mantenendo tuttavia un profilo basso, da racer, e poi… e poi che bella!
La tomaia in questa versione è un tessuto “a maglia”,  molto bello a vedersi, e molto confortevole sul piede;  è ricoperto, per molta parte della sua superficie laterale, specialmente quella esterna, da una fitta rete di piccole “patch” di gomma termosaldate, che si espandono sfumando dal rivestimento del puntale, e contribuiscono a dare sostegno alla tomaia ed a proteggere il tessuto dall’usura e dagli agenti esterni.
Il piede ha lo spazio giusto per le dita, e siede su una comoda soletta in Biomogo;   è ospitato in una struttura a semi-calzino che lo avvolge nella zona mediale, e che costituisce un tutt’uno con la linguetta, soluzione che offre una maggiore stabilità di calzata, garantita da un tradizionale ed efficiente  sistema di allacciatura che – rispetto alle versioni precedenti – riesce a coinvolgere maggiormente anche il collarino:
una volta indossata, anche senza averla allacciata a dovere, si percepisce un ottima presa della tomaia sulla parte alta del collo del piede; poi, una volta tirati i lacci a forza, anche nella parte bassa, si sente  la scarpa ben aggrappata al piede, che si sente fasciato perfettamente, specialmente intorno alla caviglia  e nella zona mediale interna, e  senza che si formino punti di pressione della tomaia sull’osso dell’alluce o sul mignolo.
  
Il contrafforte tallonare è strutturato, con conchiglia di plastica interna molto flessibile, sostenuta esternamente da una propaggine verticale dell’intersuola;  è imbottito solo nella parte alta del collarino – ed anche qui c’è un rivestimento in tessuto molto piacevole al tatto;  la conchiglia interna non fa sentire al piede la sua presenza in maniera invadente; non lo inchioda , in stile Salomon, per intenderci.
L’intersuola è in Biomogo DNA: dicesi il DNA un composto non-Newtoniano, che cambia comportamento a seconda dell’ammontare e del tipo di pressione applicata. Il suo comportamento quindi dovrebbe risultare molto personalizzato. “Sarà vero?” viene da chiedersi.
Allora giusto raccontare l’esperienza del primo impatto.
Una volta indossate, mi sono alzato, ed ho sentito i miei piedi cadere verso l’interno. Si, proprio nella zona dove la gomma dell’intersuola si inarca e si innalza maggiormente, come a voler funzionare di sostegno all’arcata del piede. Eppure, più che essere sostenuto, mi sono sentito cadere…
Al che ho pensato che questa sia stata la risposta del composto dell’intersuola alla mia caratteristica personale (misurata anche in un esame stabilometrico) di tendere a caricare il peso sull’esterno del piede. Quindi, maggior pressione all’esterno, maggior risposta dal lato esterno! l’intersuola  ha equilibrato ciò che è storto, facendomi sentire inizialmente questo riequilibrio come una “caduta”, disequilibrio.
Col passare del tempo la sensazione di disagio è sparita, e non si è mai fatta poi sentire  durante la corsa. E, siccome non ci si accorge mai di una cosa quando questa funziona bene, penso che questa storia del DNA sia veritiera!

Durante la corsa la scarpa si fan notare – specialmente in discesa – per la grande dote di flessibilità dell’avampiede, per niente limitata dalla presenza di un rockplate molto flessibile: la scarpa copia benissimo il fondo, e risulta favorire una corsa molto agile. Non è sicuramente una scarpa ammortizzante, i soli 21mm di spessore al tallone già lo fanno intuire.. per di più, andando di appoggio di tallone, in corsa lenta e stanca, si sente una risposta molto dura in fase di atterraggio, che di sicuro non la rende confortevole a corridori sovrappeso e lenti… o lenti sulla distanza Va meglio invece durante una rullata molto veloce, o nelle discese dove poter lasciar girare le gambe.
Il grip è ottimo sui terreni secchi, friabili, anche sul fango. Attenzione invece sulle pietre bagnate, meglio passaggi veloci, appoggi di frenata risulterebbero pericolosi…
Una scarpa da utilizzarsi per andare a correre, per divertirsi, sprecata – e poco adatta – a chi prevede di camminare tanto, o di faticare.



Gianluca Gaggioli
Tester materiali tecnici




5 PUNTI SU CUI BASARE LA PROPRIA SCELTA DELLA SCARPA TRAIL





Consigliare una scarpa da trail è abbastanza difficile, ognuno di noi è diverso e tante sono le variabili relative a questo sport. Cerchiamo allora di trovare i punti essenziali di riflessione:



Tomaia: personalmente non consiglio il gore-tex in quanto, a meno di essere anche dotati di ghette impermeabili, l’acqua non entrerà “attraverso” ma da sopra con maggiori difficoltà di smaltimento. Può essere invece efficace nella corsa su neve. La tomaia per me deve essere a rapida asciugatura, non rigida da dare pressione nei punti di flessione, non costringere il piede ma rimanere ben fasciante migliorando così la mobilità propria del piede e quindi la sua capacità di rispondere e adattarsi al terreno.



Drop e altezza: un drop basso facilità una migliore meccanica di corsa, soprattutto in discesa. Sicuramente chi possiede una buona tecnica potrà essere meno discriminante su questo aspetto. L’altezza dell’intersuola personalmente la consiglio la più bassa possibile in rapporto ovviamente all’ammortizzazione ricercata a seconda del tipo di distanza, più è alta e più il rischio di distorsioni aumenta, soprattutto se è inversamente proporzionale all’impronta a terra. Nel mio lavoro ho avuto spesso a che fare con runner con problemi a caviglie e ginocchia causati da questi eccessi, cambiata la tipologia di scarpa, risolto velocemente il problema.



Ammortizzazione: tasto dolente che viaggia di pari passo con il punto precedente, in quanto ormai si va sempre più ad estremizzare il parametro, fino a qualche anno fa le massimaliste (tipo hoka per intenderci) erano nei piedi di chi correva dalle 100 miglia in su, ormai c’è chi corre così equipaggiato anche le dieci chilometri, con fattori di instabilità aumentati come spiegato sopra! Esistono tanti modelli ammortizzati e piacevolmente filtranti anche per le lunghissime distanze e pesi massimi senza per forza salire sui trampoli. La differenza del percorso permette tanti distinguo, in un percorso tecnico e corto meglio una scarpa più “secca”, reattiva e precisa, in un endurance trail meglio più morbida, comoda e confortevole in toto.



Grip e mescola: questi fattori dipendono tanto dalle superfici e condizioni climatiche del tracciato, in condizioni di fango e terreno molle meglio una tassellatura aggressiva ma che permetta lo scarico del fango, in caso contrario ci si ritroverà a portare a spasso una “zeppa melmosa”. Su superfici secche e asciutte invece meglio un battistrada più minimalista, maggiormente efficace e confortevole. Negli ultimi anni i vari marchi con le rispettive mescole hanno fatto passi da gigante migliorando il grip medio, ma una buona mescola funziona a dovere se abbinata a un disegno corretto e non in tutti i casi succede. Purtroppo sono caratteristiche difficili da valutare se non provando i prodotti, magari a test organizzati da marchi e negozi.



Costo: non per forza la scarpa più costosa è la migliore e soprattutto non per forza lo è per chiunque di noi. Ci sono meccaniche di marketing e sponsorizzazioni che fanno lievitare i prezzi anche non di pari passo con la qualità e la ricerca tecnica e di materiali! Oltre al fatto che non sarà la scarpa che calzano i top runner a farci correre più forte, anzi potrebbe non essere per nulla la nostra e causarci più di un problema fisico.


In conclusione consiglio sempre di “perderci” tutto il tempo necessario al momento dell’acquisto, ragionare in base al percorso/terreno/chilometraggio in cui le userete e di non basarsi solo su consigli di venditori o amici, loro possono, se competenti, indirizzarvi, ma i piedi sono i vostri e spesso non siamo nemmeno uguali tra destro e sinistro, figuriamoci tra persona e persona! Provare modelli diversi permette di avere sensazioni e risposte diverse, quindi se non potete partecipare a delle giornate test almeno correte in giro per il negozio, salite e scendete le scale, saltate!

Marco Goglino

fisioterapista, personal trainer, runner, scialpinista






lunedì 29 gennaio 2018

SCARPA ATOM S EVO OD



Quando la prima neve comincia a posarsi sulle montagne, torna immediatamente in auge il tema della scarpa invernale: ha senso spendere un po’ dei nostri sudatissimi risparmi per una scarpa da neve, che con ogni probabilità useremo per due, forse tre mesi l’anno?


La mia risposta è sempre stata un sì deciso, sia perché amo correre in montagna quando c’è la neve sia perché, da buon appassionato di materiali tecnici, ho sempre trovato una buona mossa utilizzare una scarpa specificamente progettata per resistere alla neve, al freddo e all’umidità in manierà più decisa delle scarpe estive. Per lo stesso motivo per cui non correrei mai un trail in pieno agosto con degli scarponcini in Gore-Tex, non ho mai trovato confortevole starmene ore a zonzo sui sentieri in neve fresca con una scarpa leggera. Questo per dire che utilizzo scarpe da winter running da molti anni ormai, posso quasi dire di averle viste nascere, ma quando ho provato per la prima volta la Atom S di SCARPA la sorpresa è stata notevole: mai visto niente del genere, prima. Una sensazione di corsa leggera, veloce e scattante che ricordava quella dei modelli da 260 grammi della stagione estiva, con quella ghetta integrata a forma di calzare che avvolge la caviglia proteggendola dalla neve lasciando però molta più libertà di respirare rispetto ai modelli con ghetta esterna aggiuntiva. La Atom S EVO OD alza l’asticella della qualità ancora un po’ più in alto, con una struttura rinnovata e molto più solida, con una protezione migliorata e un’allacciatura nettamente più precisa e confortevole della sua sorella maggiore. Vediamo insieme i dettagli di questa scarpa.



Suola
Uno delle grandi novità della Atom S EVO OD. SCARPA abbandona infatti la suola della vecchia Atom in favore di quella della Spin, e noi non possiamo che rallegrarcene! Una suola praticamente perfetta: Vibram Megagrip, stessa struttura della Spin, con una tassellatura aggressiva in grado di mordere qualunque sentiero che però non tradisce le aspettative sui tratti più delicati. I tasselli multidirezionali hanno una dimensione ben equilibrata, abbastanza piccoli da scaricare bene il fango e la neve ma grandi a sufficienza non dare la sensazione di correre sugli spilli quando il terreno di fa compatto. Della suola della Spin abbiamo già parlato in diverse occasioni e ci piace ribadire quanto ci sia piaciuto portarla in lungo e in largo sui sentieri per tutta la stagione 2017, per cui è stata una bella sorpresa ritrovarla anche sui modelli invernali della casa di Asolo. Ottima la protezione dal terreno, ottenuta con un rockplate a tre quarti di lunghezza che agisce in sinergia con la suola (ed è ben visibile: vi stupirete della sua resistenza all’usura!) e l’intersuola.



Intersuola
Non parliamo certo di un modello iper ammortizzato, ma la Atom S EVO OD è una scarpa con cui si corre dappertutto senza troppi problemi. Certo, sul terreno duro e compatto risulta più secca di quanto non accada sul sentiero innevato, che fornisce una buona dose di ammortizzazione naturale ai nostri appoggi, ma mi è capitato di utilizzarla in diverse occasioni durante le grandi piovute di quest’inverno qui a Torino e mi ci sono trovato benissimo. È sicuramente una scarpa più sbilanciata sulla performance che sul comfort puro, ed è nell’ammortizzazione che questa propensione “race” emerge maggiormente. Infatti, non riesco a pensare ad una scarpa più adatta ad una corsa sulla neve, ad un “trail blanc” come li chiamiamo qui al nord-ovest: veloce, estremamente reattiva, confortevole quanto basta ma scattante quando serve soprattutto sulla neve battuta.



Tomaia
Uno degli elementi di maggiore interesse di questa scarpa è sicuramente la costruzione della tomaia, assolutamente innovativa per una scarpa da trail. Mutuando un’idea applicata sugli scarponi da alpinismo di fascia alta, SCARPA ha infatti spostato la ghetta integrata dall’esterno all’interno della scarpa, alzando di fatto il collarino impermeabile in OutDry fino a coprire parte del polpaccio. Cosa cambia? Beh, tutto! La scarpa, non avendo un overlay aggiuntivo che copre il piede, risulta nettamente più traspirante e piacevole da vestire di un modello tradizionale con ghetta esterna. È notevolmente più pratica da maneggiare durante una gara o un allenamento lungo, perché i lacci sono sempre a portata di mano pur avendo la loro “lace pocket” per riporli durante la corsa. Indossandola, la sensazione ricorda quella di uno stivaletto morbido, che si adatta immediatamente al piede avvolgendolo e assecondandolo in ogni movimento. La talloniera, infatti, è precisa senza mai risultare eccessiva. A queste caratteristiche, aggiungiamo anche dei begli inserti di protezione dagli urti sulle dita e in generale una struttura solida e contenitiva di tutta la tomaia nel suo insieme, senza rinunciare alla doti di impermeabilità e ottimizzazione del calore della membrana OutDry. Insomma, gli ingredienti per una scarpa di successo c’erano tutti e in SCARPA hanno saputo combinarli al meglio.
  
Tirando le somme
Ho amato moltissimo la prima Atom S, ci ho corso una magnifica gara in condizioni polari sulle montagne di Montgenevre ad inizio 2017 e mi ero convinto di aver trovato la scarpa definitiva per le corse sulla neve, soprattutto per quelle in cui spingere un po’ più del solito sull’acceleratore. Con questa seconda versione, sulla quale la sigla “EVO” calza davvero a pennello, SCARPA si è davvero superata smussando quel paio di angoli che nella Atom S avevo considerato difetti di gioventù. Innanzitutto la suola, ora davvero perfetta sia per la neve sia per un utilizzo più tradizionale, e poi l’allacciatura, non troppo precisa sul primo modello e decisamente più stabile e contenitiva in questa nuova versione. Questa nuova Atom S EVO da subito una sensazione di maggior solidità e protezione rispetto al modello della stagione passata, pur rimanendo leggerissima (appena 360 grammi, davvero un peso piuma per un modello così protettivo) e con un drop molto agile di soli 4 millimetri. L’unico terreno su cui non si trova proprio a suo agio è quello di bassa quota, il “door to trail” con tanto asfalto, contesto davvero molto lontano dai sentieri innevati di montagna per i quali è stata concepita. Un difetto di questa Atom S EVO OD? Il prezzo di 279€ non è proprio accessibilissimo, nonostante si tratti di una scarpa estremamente valida sotto ogni punto di vista. 





venerdì 19 gennaio 2018

VARIABILITÀ DELLE FREQUENZA CARDIACA (HEART RATE VARIABILITY, HRV)


Negli articoli precedenti abbiamo esplorato la relazione tra l’eccesso di sollecitazioni, derivanti dall’allenamento o da altri stimoli, e la tendenza a Sindrome da Sovrallenamento, infortuni da sovraccarico e intolleranza all’allenamento acquisita.
In tutti i casi abbiamo visto che una parte importante della soluzione consiste nella prevenzione.
È di fatto importante rimanere in una sorta di zona ideale in cui l’attività è sufficiente a generare gli stimoli necessari, ma non porta il fisico alla stanchezza cronica, in cui recupero e riposo sono adeguati a consentire miglioramenti in forza, velocità e resistenza, ma non portano a de-allenamento.
Storia
Al giorno d’oggi la maggior parte degli atleti sa che l’osservazione della frequenza cardiaca a riposo è un modo di monitorare la prestazione, il recupero e la salute. Pensate che la prima descrizione scritta della frequenza cardiaca, misurata al polso, risale alle opere di Erofilo, medico e scienziato dell’antica Grecia (335 AC – 280 AC), le cui osservazioni furono sviluppate dal medico greco-romano Galeno di Pergamo (131 – 200), che scrisse almeno diciotto libri sulle pulsazioni, incluso otto trattati su come formulare diagnosi e prognosi di varie malattie. I suoi insegnamenti dominarono la pratica medica per quasi sedici secoli, attraverso Medioevo e Rinascimento, fino all’età moderna; fu il primo a riportare gli effetti dell’esercizio fisico sulla frequenza cardiaca. Ad esempio, in una delle sue opere dedicata alle pulsazioni afferma “L’esercizio – finché praticato con moderazione – rende la pulsazione vigorosa, grande, veloce e frequente; tanto esercizio fisico, in eccesso rispetto alle capacità dell’individuo, rende al contrario la pulsazione piccola, debole, rapida ed estremamente frequente.” Quest’ultima frase contiene una verità, cui molti atleti moderni farebbero bene a prestare attenzione.



Verso la fine del XVII secolo, cronometri più precisi permisero di misurare meglio la frequenza cardiaca. Si dice che sia stato il medico inglese John Floyer (1649-1734) ad inventare un orologio portatile con la lancetta dei secondi ed un pulsante che permetteva di tabulare pulsazioni e respirazione in una varietà di condizioni; egli pubblicò le sue rilevazioni in due volumi, diventando un sostenitore del fatto che “si può conoscere il battito naturale e le variazioni di ritmo causate dalle malattie”. Con il miglioramento dei cronometri, si arrivò presto a descrivere le fluttuazioni delle pulsazioni arteriose e nel 1733 il reverendo John Hales (1677-1761) riportò che la durata degli intervalli fra un battito e l’altro variava durante un ciclo respiratorio.
In tempi più moderni e, in particolare, verso la fine del ventesimo secolo, ulteriori sviluppi nella misura e dispositivi a disposizione hanno portato a osservazioni ancora più accurate sulla frequenza cardiaca e sulle sue variazioni; questo a portato a definire la variabilità della frequenza cardiaca (HRV = Heart Rate Variability) come uno strumento diagnostico per la valutazione delle cardiopatie e la cura degli infartuati. Negli ultimi anni, inoltre, dispositivi di misura che prima erano grandi, complessi e di difficile lettura, sono diventati molto più economici ed accessibili al grande pubblico anche grazie alle tecnologie Bluetooth e ad alcune “app” di facile utilizzo per smartphone e tablet.
Vediamo cos’è esattamente questa variabilità della frequenza (HRV) e come può rivelarsi un importante strumento di monitoraggio per gli atleti.
Sistema nervoso simpatico e parasimpatico: un equilibrio dinamico
Da un punto di vista fisiologico, sappiamo che il battito cardiaco accelera durante l’esercizio, perché il cuore deve pompare più forte per consegnare ossigeno ai muscoli, e che rallenta quando terminiamo l’attività. Queste modulazioni sono controllate dal sistema nervoso autonomo (SNA), all’interno del quale distinguiamo due sottosistemi che influenzano direttamente la frequenza: il sistema nervoso simpatico (SNS) ed il sistema nervoso parasimpatico (SNP). L’SNS è conosciuto come “combatti o scappa” (fight or flight, in inglese), accelera i battiti ed è attivato quando dobbiamo difenderci, mentalmente o fisicamente, oppure effettuare attività fisica consistente; al contrario, l’SNP è invece il meccanismo “riposa e ripara”, attivato quando ci rilassiamo, dormiamo o in generale recuperiamo, essendo attivato anche da meditazione, respirazione profonda ed esercizi di yoga leggeri.
E’ importante notare che nessuno dei due sistemi è più importante dell’altro, ma lo stato fisiologico ideale prevede che essi collaborino armonicamente: l’SNS ci rende pronti a importanti incontri di lavoro, ci fa concentrare prima di una sessione di allenamento intensa o contribuisce alla prestazione durante una gara, mentrel’SNP ci assicura che riposiamo correttamente, che il recupero mentale e muscolare sia il più completo possibile e che siamo il più possibile a nostro agio. Le cose si complicano quando uno dei due meccanismi diventa predominante sull’altro per un periodo prolungato: l’esempio più classico, un po’ esagerato, è quello dell’atleta di endurance che eccede con gli allenamenti ad alta intensità senza riposare sufficientemente. In questo caso, l’SNS continuerebbe in uno stato di prevalenza dovuto all’eccessivo stimolo allenante che, se protratto per troppo tempo, porterebbe il fisico ad uno stato di affaticamento in cui, paradossalmente il sistema parasimatico SNP prenderebbe il sopravvento, con conseguente letargia e impossibilità ad allenarsi.
Considerato tutto quanto, è chiaro che sarebbe un valido alleato uno strumento che ci mostrasse se il nostro corpo è in uno stato di equilibrio. Nel passato gli atleti hanno misurato la propria frequenza cardiaca appena svegli per sapere quanto erano pronti a ricevere gli stimoli allenanti e, sicuramente, un battito a riposo eccessivamente rapido può essere un campanello di allarme. Tuttavia, uno studio effettuato da università francesi e svizzere (Relation between heart rate variability and training load in middle-distance runners. Med. & Sci. in Sports and Exercise: January 2000) mostra come dopo un periodo di tre settimane di intenso allenamento, la frequenza cardiaca di un gruppo di runner è aumentata in media solo del 9% (3,74 battiti al minuto), mente la variablità della frequenza (HRV) ha mostrato una variazione media del 40%; le conclusioni dello studio furono che “l’HRV sembra essere uno strumento migliore della frequenza cardiaca a riposo, per valutare lo stato di affaticamento fisico cumulato, poiché rende più visibili i cambiamenti indotti nell’attività del sistema nervoso autonomo. Questi risultati possono essere rilevanti per ottimizzare i piani di allenamento individuali”.



HRV: cos’è
L’HRV misura le piccole, quasi impercettibili, differenze nel tempo che intercorre tra un battito e il seguente. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, maggiore è questa variabilità, maggiore è lo stato di salute del fisico e l’equilibrio fra sisema nervoso simpatico e parasimpatico. Normalmente, l’HRV è basata sulla misura protratta per due o tre minuti di queste piccole differenze, che vengono quantificate in un parametro numerico con un algoritmo di calcolo particolare (RMSSD = “root mean square of successive differences”), che è poi riportato su scala logaritmica, dando luogo ad un valore che va circa fino a 100. Ci sono due importanti valori di HRV da considerare: uno è quello giornaliero, l’altro quello di base, che si determina nel tempo e che deve essere il più alto possibile; non è un valore predefinito, lo si può migliorare gradualmente nel tempo, alternando adeguatamente allenamento e recupero, fino ad arrivare ad un massimo determinato dalla genetica. Di converso, può anche diminuire, se allenamento o recupero non sono sufficienti. Dall’altro lato, l’HRV giornaliero avrà variazioni molto maggiori a seconda dei cicli di preparazione atletica; la maggior parte degli applicativi utilizza un codice colore a semaforo e ci permette di decidere se è opportuno intraprendere sessioni di allenamento intense (luce verde), oppure se è meglio tenere un approccio più conservativo (luce gialla), o ancora se è necessario un giorno di riposo (luce rossa). C’è da dire che per un atleta non è necessariamente un bene avere sempre luce verde, perché potrebbe significare che gli stimoli allenanti non sono sufficienti a portare miglioramenti; è meglio avere una maggioranza di segni verdi, inframmezzati da un po’ di gialli, ad indicare che l’attività è stata sufficientemente intensa. Va anche considerato che il parametro di HRV è anche influenzato da altri elementi della vita quotidiana quali la nutrizione, l’idratazione, il sonno e lo stato emotivo.
Monitorando le fluttuazioni giornaliere e la tendenza della baseline, possiamo cercare di avere miglioramenti atletici graduali senza il rischio di sovra/sottoallenamento; se vedessimo un baseline stabile, o addirittura in calo, al contrario dovremmo allarmarci.
C’è da considerare anche che il valore di base varia in base allo schema delle pulsazioni di una persona e con l’età; mentre per una persona di 20-30 anni un range normale spazia fra 60 (fisico non molto allenato) e 90 (fisico ben allenato), per un uomo di circa 60 anni un valore di 55 sarebbe molto buono. In definitiva il valore del parametro restituito da un’applicazione software non è da considerare in assoluto oppure riferito al valore di altre persone, a causa di queste variabilità, tuttavia le variazioni nel tempo possono darci indicazioni di valore nel singolo atleta.
HRV: come si usa
Fra le numerose APP, ci sono quelle gratuite (Elite HRVbasic) e quelle a pagamento (Bioforce HRV, Elite HRV (team), Inner Balance, ithlete, Sweet Beat, HRV4Training); ognuna ha requisiti tecnologici diversi, può essere stata sviluppata per smartphone o tablet e richiedere o meno un sensore esterno come una fascia cardio bluetooth. Ultimamente, alcune app più nuove utilizzano la fotocamera del telefono come strumento di misura, anche alla luce di ricerche scientifiche in proposito (Extraction of Heart Rate Variability from Smartphone Photoplethysmograms, Rong-Chao Peng, Xiao-Lin Zhou, Wan-Hua Lin, Yuan-Ting Zhang. 2015); HRV4 Training è una di queste e il suo creatore, il Dott. Marco Altini, ha appena pubblicato un articoloscientifico al riguardo (Comparison of heart rate variability recording with smart phone photoplethysmographic, Polar H7 chest strap and electrocardiogram methods, D.J. Plews, B. Scott, M. Altini, M. Wood, A.E. Kilding and P.B. Laursen, International Journal of Sports Physiology and Performance, 2017)
Una volta che abbiamo definito uno strumento adatto o un’app, vediamo quando effettuare la misura. Pare che sia preferibile farlo al mattino presto, appena svegli; infatti, a causa del ritmo circadiano e delle fluttuazioni ormonali, una lettura effettuata durante la giornata potrebbe dare risultati diversi a seconda del momento. Si può anche discutere se sia meglio fare la misura da sdraiati, in piedi o seduti, con preferenza per l’ultima di queste; la posizione supina pare infatti favorire il sistema nervoso parasimpatico (e quindi rilassamento), mentre quella in piedi il sistema simpatico (e quindi attivazione), con il risultato di falsare potenzialmente la lettura della variabilità cardiaca. In ogni caso, è importante mantenere le stesse condizioni in tutte le misurazioni, le quali richiedono normalmente due o tre minuti, più il tempo necessario ad inserire alcuni dati, come la qualità e le ore di sonno e di allenamento del giorno precedente.


I grafici rappresentati dai vari sistemi o APP possono presentare i dati in forma diversa. A titolo di esempio, presentiamo degli screenshot effettuati con l’app Elite HRV. Il soggetto, in questione [l’autore – NdR] presenta un valore basale di HRV di 54, per cui una misura puntuale di 55 indica una momentanea prevalenza del sistema nervoso parasimpatico, ma sempre rimanendo in zona “verde”, quindi adatta ad allenarsi. Se la lettura fosse ad esempio 57, l’indicazione colore sarebbe stata “giallo”, associata probabilmente ad un momento di recupero e ricostruzione del fisico, con suggerimento di riposare o di effettuare esercizio solo a bassa intensità. Analogamente, un parametro di HRV giornaliero di 51, avrebbe portato ad un’indicazione di semaforo giallo, per eccessiva attivazione del sistema nervoso simpatico, sintomo di affaticamento, con indicazione di riposo.
Risulta intuitivo capire come una misurazione effettuata per alcune settimane può dare un’idea della tendenza dell’HRV e di come l’allenamento influenzi l’organismo. In figura si trova un esempio di grafico che mostra un orizzonte temporale di dieci giorni: la linea blu indica il parametro di HRV, mentre le barre sono un’indice di quanto il soggetto è pronto ad allenarsi quel giorno. Si osserva come nel secondo, terzo e quarto giorno l’indicazione sia sempre la stessa (colore giallo = riposare), tuttavia a fronte di letture diverse del parametro di HRV: alto nel secondo e nel quarto giorno, basso nel terzo. Molto probabilmente il soggetto nel secondo giorno, in cui partiva da un HRV alta, ha esagerato con l’attività aerobica, producendo un’attivazione eccessiva del SNS invece di riportare l’organismo all’equilibrio (omeostasi). Nei giorni successivi, le variazioni di HRV sono più contenute, indicando un bilanciamento più efficace fra SNS e SNP.


In conclusione, monitorare la variabilità della frequenza cardiaca (HRV) pare proprio un metodo efficace, semplice ed economico per ottenere il massimo dal proprio allenamento e, al contempo, salvaguardare la salute. Sicuramente questo è favorito dalla velocità della misura e dalle indicazioni biometriche immediate.