L’aumentata permeabilità intestinale come causa scatenante dello stress ossidativo nelle Ultra Maratone.
Molto spesso parlando di nutrizione sportiva nelle gare di endurance ci si
focalizza sull'alimentazione nella finestra di tempo prima e durante la
performance, in una prospettiva di adeguato rifornimento energetico.
Se questo può forse essere sufficiente nella corsa su medie distanze, non
colpisce il centro della problematica quando invece si tratta di maratone ed
ultramaratone. In questa dimensione, un organo su tutti è alla base di un equilibrio
delicato, sia biochimico che nervoso: l’intestino.
La funzionalità dell’intestino non dipende solo dalla velocità di
assorbimento dei nutrienti, poiché esso rappresenta un organo cruciale sotto
numerosi aspetti, tra cui quello della modulazione dello stato infiammatorio.
La permeabilità della barriera intestinale in condizioni di salute è
estremamente rigida nel determinare il passaggio di sostanze dal canale
intestinale al sangue.
Uno sforzo prolungato per ore o giorni consecutivi, come nel caso di una
gara a tappe, si traduce in un “invecchiamento temporaneo” della barriera
intestinale, le cui maglie perdono la loro capacità di filtro dei nutrienti. Il
risultato è un maggiore passaggio di allergeni e tossine nel torrente
circolatorio, con conseguente aumento dello stato infiammatorio durante la gara
e nei giorni successivi.
Proprio come succede a un setaccio vecchio e liso, allo stesso modo un
intestino infiammato a causa di uno sforzo acuto non riesce più a distinguere
tra sostanze desiderate e nocive, assorbendo entrambe le tipologie in maniera
indiscriminata.
Lo stress ossidativo a carico dell’organismo a questo punto sale a picco e
il danno non è più rimediabile perché la somministrazione di antiossidanti
risolve solo una piccola parte della catena di eventi dannosi innescati.
La ricerca si sta indirizzando verso strategie che limitino a monte
l’aumento di permeabilità della barriera e quindi lo stress conseguente
(raffreddamento pre-gara del corpo, iper-idratazione, ottimizzazione del
periodo di acclimatamento, training), anche per evitare che la ripetizione nel
tempo di danni acuti per la partecipazione a più ultramaratone non sfoci nella
condizione cronica nota come Leaky Gut Syndrome, letteralmente sindrome
dell’intestino colabrodo.
Affrontare un’ultra in una situazione in cui la microflora intestinale non
è in equilibrio o è anche solo parzialmente compromessa, rischia di sfociare in
un danno acuto ancora più grave a carico della barriera intestinale. Le
tecnologie oggi a disposizione ci permettono di analizzare lo stato della
microflora, valutando l’equilibrio delle specie batteriche presenti (http://mymicrobiota.it/).
Nei mesi che precedono un’ultramaratona e nel periodo di avvicinamento,
è auspicabile integrare con probiotici e fermenti lattici: questo non
solo in una dimensione preventiva dei meccanismi descritti precedentemente, ma
anche in un’ottica di maggior efficienza energetica degli integratori assunti
durante la gara.
Aspetto comune degli sport di endurance, e caratterizzano molto di più il
running rispetto ad altre tipologie di sport. Inoltre compaiono molto più
frequentemente in uno stato di disidratazione rispetto alla normo-idratazione.
In uno studio sui partecipanti a un triathlon, il 93% ha riportato problemi
alla parte superiore del tratto digerente (nausea, vomito, eruttazione,
gonfiore), mentre il 60% dei partecipanti di una 100 miglia ha dichiarato
problemi sia al tratto superiore (nausea in primis) sia inferiore (crampi
e diarrea).
Nelle gare a tappe l’insorgenza dei problemi gastrointestinali
statisticamente colpisce gli atleti soprattutto nei primi 1-2 giorni, in una
sorta di processo di adattamento dell’organismo alle difficoltà della gara.
Alimentazione e idratazione vanno in questi termini di pari passo, poiché una
disidratazione parziale predispone all'insorgenza di nausea e vomito, e
pregiudica la capacità di assumere gel e integratori.
È quindi opportuno integrare acqua, sali e carboidrati in maniera
estremamente frequente e regolare, cercando di non superare un quantitativo di
carboidrati superiore ai 60 g. ogni ora di gara (che corrisponde al limite di
assorbimento medio del nostro intestino); dosi superiori a questa soglia
possono facilitare l’insorgenza di sintomi gastrointestinali.
L'iponatremia da attività fisica è la condizione in cui i livelli di sodio
nel sangue sono inferiori a 3,1 g/L durante la competizione o nelle 24 h
successive. Sintomi iniziali molto generici, come nausea, vomito e mal di
testa, sono riscontrati in oltre un quinto degli atleti ultra americani. Il
peggioramento della condizione acuta, abbastanza raro, può sfociare in danni
gravi al sistema nervoso centrale ed essere causa di coma o morte per edema
cerebrale.
Seppur trascurata, è la causa a cui è stata ricondotta la morte di 6 atleti
negli ultimi anni tra USA e Gran Bretagna.
L’eccessiva diluizione del sodio (componente del comune sale da cucina) nel
sangue durante uno sforzo fisico prolungato rappresenta una minaccia per chi
utilizza semplice acqua per la reidratazione.
Infatti durante un'ultramaratona le perdite non riguardano esclusivamente
liquidi ma anche una massiccia componente salina, che va reintegrata
progressivamente. La diluizione dei fluidi corporei non compensata può infatti
ripercuotersi sulla funzionalità del sistema nervoso centrale e originare
l'iponatremia.
Assolutamente sconsigliate, non solo
in questi casi ma in tutto il periodo di allenamento dell’atleta, sono le acque
iposodiche e ipomineralizzate. Il trattamento dell’iponatremia acuta è
rappresentato dall’assunzione di soluzioni ipertoniche, spesso in grado di
risolvere i sintomi di confusione mentale e nausea nel giro di 30 minuti. Nei
casi più gravi la somministrazione avviene attraverso infusione endovenosa di
soluzione isotonica.
Enrico Ponta
Biologo Nutrizionista Evidence-based sport
nutrition https://dottorponta.it
Fonte: TrailRunning.it
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