“Ho le gambe dure dall’acido lattico”….è una delle frasi più frequenti ed errate che si sentono spesso dire da chi è affaticato. L’acido lattico non è un responsabile evidente della fatica, che invece ha origini di natura multifattoriale. La fatica non è altro che un meccanismo protettivo naturale del corpo (e di parti di esso, come i muscoli) per evitare che venga compromessa l’integrità dello stesso. Comprendere come funzionano i metabolismi e la fatica, è un passo fondamentale per capire l’allenamento e la performance. In questo post, cercheremo di spiegare in maniera estremamente chiara e comprensibile a tutti le basi della metodologia dell’allenamento, dell’alimentazione e dell’adattamento ambientale. Gli argomenti sono abbastanza complessi, ma il nostro tentativo è quello di renderli comprensibili a tutti. In caso di dubbi, o necessità di delucidazioni, non esitate a chiedere!
RIASSUNTO
ALLA PRIMA PARTE
· I metabolismi energetici
· Il modello tridimensionale della fatica,
approfondendo solamente la prima parte (fatica periferica)
con ricadute applicative riguardanti alimentazione ed integrazione.
FATICA
CENTRALE
(corsa
in discesa, altitudine, ipertermia, ecc.)
La fatica è l’incapacità di mantenere durante lo sforzo l’intensità
aspettata/voluta; prima di comprendere le cause della Fatica
centrale, mi preme fare comprendere come vengono gestiti i segnali motori ed
efferenti nel contesto della fisiologia.
Nell’immagine sopra è
possibile vedere (in maniera semplificata) come i comandi motori che vanno al muscolo originino dai centri
SUPERIORI ed INFERIORI del SNC (Sistema Nervoso Centrale).
Nell’esecuzione dei “comandi”, il muscolo (e tutto l’organismo) invia dei
segnali al SNC (SEGNALI AFFERENTI) che
informano costantemente (come una sorta di feedback, freccia viola) sulla
“situazione fisiologica” del corpo.
Nel precedente post dedicato alla fatica periferica abbiamo
visto come questa sia dovuta alla mancata corrispondenza tra i segnali del
Sistema Nervoso (cioè i comandi, freccia blu) e l’intensità espressa; la causa
può essere dovuta all’accumulo di cataboliti, alla carenza di substrati o altre
alterazioni cellulari. Nella figura sotto è ben evidente con la “X” in basso
all’interno del muscolo.
Sempre nell’immagine
sopra, è possibile vedere anche l’origine della Fatica
Centrale: questa si manifesta con una riduzione dei segnali dai CENTRI INFERIORI DEL SNC (cioè
dall’origine della freccia blu) ai muscoli. In altre parole, il soggetto può
richiedere con la volontarietà un certo livello di Potenza (freccia verde), ma
i centri inferiori del SNC (che determinano l’origine dei segnali al muscolo)
non rispondono in maniera corrispondente. La causa di questo risiede
principalmente nei SEGNALI AFFERENTI (freccia viola), che informano il SNC che, in una determinata condizione, è meglio “non
esagerare” con l’intensità muscolare per non compromettere l’integrità del
muscolo o di altri sistemi dell’organismo. Ma passiamo a fare
qualche esempio per essere più chiari:
· CORSA IN DISCESA: è stato visto che quando si corre in
discesa, non si riescono ad avere le stesse intensità cardiovascolari (in
termini di consumo di ossigeno) rispetto alla corsa in pianura od in salita
(ciò è evidente quanto più è ripida la pendenza della discesa). Questo è dovuto
al fatto che in discesa, le strutture muscolari,
tendinee ed articolari sono maggiormente sollecitate;
l’informazione delle sollecitazioni viene trasmessa tramite i segnali afferenti
(freccia viola) al SNC che inibisce parzialmente la contrazione muscolare per
evitare che sforzi muscolari eccessivi compromettano
l’integrità dei tessuti (muscolari/tendini/articolazioni). Per
migliorare la capacità di correre in discesa, è fondamentale incrementare la stiffness delle catene muscolari (cioè la capacità
di reagire a contrazioni intense in poco tempo) e l’attitudine a correre in
discesa. Nel nostro post dedicato, abbiamo approfondito l’allenamento specifico per la discesa.
· CORSA IN ALTA QUOTA: la corsa di resistenza in alta quota è un altro
esempio di come la fatica centrale limiti lo sforzo fisico. Infatti, come tutti
sanno, le prestazioni di endurance vengono limitate man mano che la quota
incrementa; è evidente che ciò sia dovuto alla rarefazione dell’ossigeno. Ma in
che modo influisce? La ridotta pressione parziale di ossigeno nell’aria,
provoca una minor saturazione dell’emoglobina (in altre parole, nel sangue circola meno ossigeno) che genera un
feedback (segnali afferenti) che letto dal SNC, provoca una
limitazione della contrazione muscolare in condizione di resistenza. Infatti,
in quota è stato visto che i livelli di lattato (che dimostrano l’attivazione
muscolare intensa) rimangono più bassi, indice che i muscoli (in sforzi di endurance) non vengono sollecitati al
massimo delle loro potenzialità per evitare che l’integrità
metabolica dei tessuti venga compromessa. Ovviamente l’acclimatazione alla
quota permette all’organismo, nel tempo, di adattarsi fisiologicamente alla
situazione, migliorando la capacità di svolgere lavoro fisico in altitudine.
Nel nostro post dedicato all’allenamento e alla corsa in quota potete
vedere un’ampia disamina sull’argomento.
· ALTRE CONDIZIONI: altre condizioni fisiologiche che
provocano questo tipo di fatica sono l’ipertermia (è
evidente che quando è caldo, l’entità delle performance di resistenza sia
inferiore), disidratazione, ipoglicemia (riduzione zuccheri nel sangue), deplezione glicogenocelebrale o epatico, alterazione di alcuni neurotrasmettitori, ecc. È ovvio
che determinate condizioni siano maggiormente evidenti con il
prolungarsi dell’esercizio piuttosto che all’inizio dello sforzo!
Appare quindi ovvio
che l’allenamento e l’acclimatazione alle
situazioni specifiche che vengono affrontate in gara, rappresentano il mezzo
principale per affrontare le condizioni che più si discostano dalla norma.
FATICA
COSCIENTE
(motivazione/demotivazione,
“fattore campo”, adrenalina, ecc.)
A pari condizioni di
forma, lo stesso tipo di performance può avere intensità diverse a causa delle condizioni motivazionali del soggetto.
L’esempio più lampante è il “fattore campo”
negli sport di quadra. Per chi pratica sport di endurance è altrettanto
evidente come in gara si riescano a tollerare sforzi atletici di
intensità/durata leggermente superiori rispetto all’allenamento. Altre
condizioni studiate recentemente, sono quelle relative all’ascolto
della musica o alle condizioni di affaticamento in
situazione di impegno cognitivo.
Se gli aspetti appena
citati sono abbastanza ovvi, oggi si sta approfondendo sempre più un altro ramo
della fatica cosciente, cioè quello relativo alla REGOLAZIONE ANTICIPATORIA DELLA PERFORMANCE. Senza
addentrarci eccessivamente in un ramo della fisiologia abbastanza complesso
(nell’immagine sotto è possibile vedere uno schema tratto dalla ricerca di Tucker
2009), possiamo affermare che il SNC non modula l’attivazione
dell’intensità motorio solamente in base ai segnali afferenti, ma anche in base
alla “stima” del lavoro fisico che andrà ad effettuare.
Tale “stima”, rappresenta un’ipotesi (inconscia) del lavoro fisico che si andrà
ad effettuare in base all’esperienza che si è costruita in passato; tale
meccanismo influenza la percezione dello sforzo e
di conseguenza la modulazione dell’intensità.
A questo tipo di
conclusioni si è arrivati tramite diverse sperimentazioni in cui venivano date
diverse informazioni (giuste o sbagliate) ai soggetti durante la pratica fisica
per vedere la loro risposta. Tali informazioni erano relative all’intensità,
alla durata dello sforzo, a quanto mancava alla fine dello sforzo, ecc. Tale
effetto è maggiormente evidente quanto più si ha esperienza nel tipo di
sforzo/gara considerata. Ma andiamo ora a fare un esempio più
concreto grazie alla ricerca di Billat
e coll 2006, in cui venne analizzato il costo metabolico (consumo di
ossigeno) in un test massimale sui 10 Km (podisti
amatori) corso inizialmente a con gestione libera dello sforzo e poi a passo
costante (ricavato dal miglior tempo ottenuto a passo libero). Nell’immagine
sotto è possibile vedere l’esito della ricerca.
A passo libero, il
consumo di ossigeno medio (Vo2) è di 48 ml/Kg/min, mentre
a passo costante (impiegando lo stesso tempo) è di 53 ml/Kg/min. Questo significa che impostando
l’andatura “a sensazione”, a pari tempo finale, si consuma meno ossigeno
rispetto ad un’andatura “fissa costante”. Infatti, correndo a sensazione, si tende
a partire leggermente più forte, calare leggermente nel terzo/quarto di gara,
per poi accelerare verso la fine; probabilmente questa è la
condizione ideale per minimizzare lo stato di fatica in relazione al consumo
energetico (Vo2). Il meccanismo inconscio che determina questo
atteggiamento è la sopra citata REGOLAZIONE ANTICIPATORIA DELLA
PERFORMANCE. È ovvio che, per la maggior parte dei podisti, sia più
facile che ciò avvenga in una gara di 10 Km piuttosto che in una maratona
(distanza sulla quale si ha meno pratica). Questo spiega perché atleti esperti
riescono ad ottimizzare la strategia di gara (distribuzione dello sforzo)
in maniera migliore rispetto ad altri.
CONCLUSIONI
ED APPLICAZIONI PRATICHE
Possiamo quindi
riassumere il concetto di fatica come un aspetto fisiologico che permette di
evitare che venga compromessa l’integrità dell’organismo. Questa si esplica a più livelli (periferico, centrale e conscio)
in cui una significativa importanza lo riveste anche la motivazione e l’esperienza inconscia della disciplina specifica.
La specificità dell’allenamento, supportata da un buon sviluppo generale delle qualità dell’atleta,
rappresenta la chiave di un allenamento ottimale. Ma andiamo ora a sfatare un
mito ancor molto radicato sulla fatica
“Ho le
gambe dura dall’acido lattico da ieri”
L’acido lattico è una
sostanza prodotta dalla cellula muscolare in seguito all’attivazione della glicolisi; quest’ultima è una via
metabolica particolarmente attiva durante sforzi intensi, provocando una quota
elevata di acido lattico che in parte
si riversa dalla cellula muscolare al sangue (ed essendo quindi misurabile).
Questo ha portato, nello scorso secolo, a ipotizzare che la presenza di questa
sostanza fosse la causa della fatica. Niente di più sbagliato,
e vi spieghiamo il motivo:
inizialmente si
credeva che l’acido lattico portasse un livello di acidità tale nel muscolo e
nel sangue da comprometterne l’omeostasi (equilibrio fisiologico) e indicendo
la fatica. Come abbiamo visto sopra e nel precedente post, la fatica è un fenomeno
multifattoriale e l’acidosi muscolare che si
presenta durante sforzi intensi, è prevalentemente dovuto ad altri metaboliti (ma
non all’acido lattico). In sforzi intensi e prolungati invece l’acidosi è
prevalentemente dovuta alla produzione di anidride carbonica (CO2) nei
muscoli che si trasforma in bicarbonato (Lindinger 2003).
Non solo, l’acido lattico, ha un’emivita
media di 30’…cioè dopo ogni 30’ si dimezza la sua concentrazione; di
conseguenza, è impossibile che il giorno successivo allo sforzo sia presente
ancora in quota elevata (una quota basale è sempre presente).
La sensazione di “mal
di gambe” il giorno successivo allo sforzo, è dovuto alla fuoriuscita di
materiale cellulare dalle membrane (le cui cause le potete vedere nell’immagine
sotto) e dall’attività delle cellule del sistema immunitario richiamate che
stimolano le terminazioni nervose responsabili del dolore muscolare.
“I
grassi bruciano al fuoco dei carboidrati”
Questo non è un luogo
comune, ma un reale e fondamentale aspetto delle discipline
di durata. Credo che qualsiasi atleta che pratica sport di
resistenza si sia prima o dopo scontrato contro il “muro” (i maratoneti lo chiamano il “muro del 30° Km”). Quando abbiamo parlato di fatica
periferica abbiamo visto che quando le riserve di glicogeno muscolare si abbassano sotto un certo
livello, non si riescono a tenere più ritmi intensi. L’abbassamento ulteriore
dei livelli ematici di glucosio (glicemia) inibisce
anche la possibilità di tenere ritmi medi (fatica centrale). Eppure, si
potrebbe esser portati ad ipotizzare di poter tenere ritmi medi grazie al
consumo dei grassi, che sono un substrato energetico importante (con
disponibilità fisiologica praticamente infinita) quando si tengono intensità
non elevate.
Nella figura sopra è
presentata la parte finale (che è in comune) dei metabolismi di
Carboidrati/Grassi/Proteine, cioè il Ciclo
di Krebs. Un elemento fondamentale affinchè questa via
metabolica funzioni, è l’ossalacetato (oxalocetate
in Inglese); questa molecola deriva dal metabolismo dei carboidrati
(glicogeno/glucosio, vedi freccia rossa). È quindi evidente che in condizioni
di deplezione di glucosio/glicogeno, la produzione di ossalacetato sarà
limitata (perché deriva primariamente dal metabolismo dei carboidrati) a tal punto da rallentare la metabolizzazione dell’Acetyl-Coa
(vedi immagine sopra) in Citrato e di conseguenza il metabolismo dei grassi a
scopo energetico. Come evitare quindi di sbattere contro il
muro?
· Presentarsi a gare lunghe ed impegnative solo se
adeguatamente preparati; abbiamo dedicato diversi post alla
maratona, compreso un interessante studio su podisti amatori svolto in Italia.
· Seguire una dieta adeguata, prestando attenzione al carico di carboidrati pre-gara (carbo load). Ricordiamo che il carico di
carboidrati è efficiente tanto più l’organismo è in grado di stoccare
carboidrati (glicogeno); ciò dipende dalla capacità aerobica dell’atleta.
· Adottare un’adeguata strategia di integrazione in gara a base di
carboidrati (zuccheri); Asker Jeukendrup (uno dei maggiori studiosi
sull’argomento) consiglia circa 30 g/h (grammi/ora) per sforzi compresi tra 1-2
ore, e 60-90 g/h per sforzi di lunghezza superiore alle 2 ore. È fondamentale
ricordare che l’allenamento a sforzi di durata deve comprendere anche
l’allenamento dell’organismo a tollerare l’ingestione di
zuccheri sottosforzo, per evitare effetti collaterali il giorno
della gara. Come per il carico di carboidrati, la capacità di sfruttare al
meglio l’integrazione in gara, dipende dalla capacità aerobica.
Fonte: MisterManager.it
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